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Disegni sculture, la poesia che sfiora le cose

Aggiornamento: 31 ago 2021


Mi accosto alla mostra “#HenryMoore. Il disegno dello scultore (#MuseoNovecentoFirenze, 18.01.2021-22.08.2021) con un entusiasmo impaziente dopo la lunga chiusura dei musei e la fruizione di opere d’arte per via virtuale. Non vedo l’ora di varcare la realtà del museo, ammirare una mostra dal vero, nutrirmi di opere fisiche.

L’esposizione illumina una zona meno conosciuta del percorso di Henry Moore, raccogliendo una serie numerosa di opere grafiche dell’artista inglese, molto più noto per le sue sculture.

Nella città di Prato, per esempio, si trova “Forma squadrata con taglio”, una scultura monumentale in marmo bianco, uno dei più alti esempi di scultura contemporanea in Italia, realizzata da Moore tra il 1969 e il 1971, e acquistata dal Comune di Prato a seguito della grande mostra dedicata all’artista tenutasi a Firenze, al Forte di Belvedere, nel 1972.

Addentrarsi nella mostra al Museo Novecento, aggirarsi tra i tanti #disegni, è come immergersi in una dimensione spazio-temporale inusuale, molto lontana dalla frenesia della vita quotidiana, più vicina alla lentezza necessaria alla preparazione, alla coltivazione e alla cura della terra per raccogliere buoni e nuovi frutti. Dal libro “L’ascolto rispettoso” prendo a prestito questa metafora che mi sembra molto appropriata per descrivere la spinta creativa come un movimento lento e fruttuoso, come lo è, per Henry Moore, il transito, disteso e fiducioso, che conduce dai bozzetti alla scultura.

Nel suo percorso artistico, le produzioni grafiche rappresentano, infatti, la base per l’osservazione, lo studio e la sperimentazione di forme diverse prima di confrontarsi con la materia da plasmare o da scolpire.

L’esposizione si apre con una sala che raccoglie una serie di #incisioni all’acquaforte, studi dal vero di un cranio di elefante, cui l’artista si è dedicato per anni.



“Il primo giorno disegnai l’intero cranio per scoprirne la costruzione generale; poi pian piano mi accorsi con stupore della sua complessità e il mio interesse e curiosità crebbero ad ogni giorno che ci lavoravo. Avvicinando il cranio e disegnandone diversi dettagli, scoprii tali e tanti contrasti di forme che iniziai a scorgerne vasti deserti e paesaggi rocciosi, grandi caverne sui fianchi delle colline, opere di architettura, colonne e torrioni” (Henry Moore)

In queste opere grafiche, presentate in successione sulle pareti che incorniciano il teschio d’elefante, collocato al centro dello spazio espositivo, si possono scorgere deserti, mari, grotte, ghiacciai, abissi, dirupi, paesaggi lunari, vette, cascate, rocce, opere architettoniche, panorami vibranti originati dalla stessa testa d’elefante, universi lontani eppure familiari.



Ogni disegno apre orizzonti di immaginazione: un osso non è soltanto un osso, ma, in momenti e a sguardi diversi, un accenno di paesaggio, una creatura strana o un’altra forma.

Ogni disegno è una storia: non si conclude nell’istante contenuto nel foglio, ma ha una propria evoluzione, una propria dinamicità narrativa.

I disegni osservati in successione raccontano tante storie ancora.

Raccontano qualcosa dell’artista che, tramite i suoi lavori, parla della sua particolarità con un linguaggio, al contempo, toccante per ognuno di noi.

“Fin da quando ero studente ho sempre amato la forma delle ossa: le ho disegnate, le ho studiate al museo di storia naturale, ne ho raccolte sulle spiagge e altrove, e le ho gelosamente conservate” (Henry Moore)


L’artista era figlio di un minatore e visse la sua infanzia imparando a guardare e a conoscere il carbone, le rocce, le pietre grezze e levigate.

Questo dato autobiografico fa intuire la scelta dei soggetti dei suoi disegni (che sono spesso ossa, rocce…), materie devitalizzate a cui offre nuova vita.

Moore affronta i diversi angoli di oggetti che appartengono alla sua #infanzia e con i quali stabilisce un rapporto intimo e dolce, a intervalli drammatico e oscuro, come i dettagli formali delle sue opere sanno comunicarci a livello immediatamente sensoriale: il tratto tenero e dinamico accarezza gli oggetti, il bianco e nero, quando lievemente macchiato da colori tenui, così come il dettaglio di alcune porzioni della figura rispetto all’indefinitezza dello sfondo, attribuiscono alle figure rappresentate coloriture emotive nostalgiche che li collocano in un tempo lontano e sfumato, ma anche molto vicino.


Mentre l’artista compie una scelta affettiva degli oggetti da raffigurare, è la natura stessa a permettergli di arricchire la propria esperienza, attraverso l’offerta di una serie illimitata di forme e di ritmi: l’articolazione delle diverse parti di una struttura, profondità e rilievi, chiaroscuri, discontinuità e regolarità delle superfici, durezza e morbidezza, linee curve e linee rette…

Così, ad ogni sguardo e ad ogni gesto, l’oggetto rivela nuove qualità e possibilità.

“Ogni scoperta è un’autorivelazione” sosteneva lo psicoanalista Meltzer; l’artista riscoprendo forme naturali conosciute, rinnova il suo rapporto personale con oggetti della propria infanzia.

E’ in atto una creazione.

E non è irrilevante che questo processo trasformativo proceda, per Moore, dal bidimensionale al tridimensionale: dai disegni - che contengono già in seme una certa corposità, tattilità e profondità - alle #sculture.

La creazione sembra rispondere alla necessità di dare corpo all’oggetto - a cose personali - offrendone una visione più ampia.

Dare #vitalità all’oggetto significa, infatti, non vederne solo una parte ma vederlo nel suo insieme, vederlo come un tutto unitario… l’interesse è per l’oggetto vivo, non per i pezzi dell’oggetto.

E questo modo di lavorare dell’artista mi colpisce perché si avvicina molto ad un’idea di #psicoterapia che cerca di portare fuori, alla luce, la vitalità della persona.

Ritornando alla mostra, ne risultano “disegni affettuosi”, che parlano ad ognuno di noi, che parlano di ognuno di noi, della vita, della morte, della solitudine, della nostalgia, della vicinanza…

Questa universalità velata, che è la cifra dell’opera d’arte, insieme all’affettività-poeticità che contraddistingue le opere grafiche di Henry Moore, mi richiamano immediatamente alla memoria un segmento della poesia di Eugenio Montale, I limoni, tratta da Ossi di seppia.

Vedi, in questi silenzi in cui le cose/ s’abbandonano e sembrano vicine/ a tradire il loro ultimo segreto,/ talora ci si aspetta/ di scoprire uno sbaglio di Natura,/ il punto morto del mondo, l'anello che non tiene,/ il filo da disbrogliare che finalmente ci metta/ nel mezzo di una verità.


BIBLIOGRAFIA

Nissim Momigliano L., 2001, L’ascolto rispettoso. Scritti psicoanalitici, Raffaello Cortina

Pagano R., 2021, Balconi Marcella, su www.spiweb.it

Recalcati M., 2007, Il miracolo della forma. Per un’estetica psicoanalitica, Bruno Mondadori




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