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Sincronie e dissonanze

Lo sport di squadra come esperienza (non solo sportiva)

 

Da alcuni anni, tengo una formazione in una scuola calcio.

Quest’anno, mi hanno chiesto di trattare il rapporto tra allenatori, genitori e bambini. Riporto il mio intervento integrato con alcune delle riflessioni emerse durante l’incontro che ha coinvolto genitori, istruttori e dirigenti di questa scuola calcio.



 

Introduco il tema del ruolo delle diverse figure educative del bambino attraverso le parole contenute nel cartello affisso all’ingresso della società sportiva: “Grazie mamma e papà di avermi accompagnato fin qui. Da qui in poi faccio da solo”.

Per la crescita e l’acquisizione della sua autonomia, è fondamentale che il bambino faccia due ordini di esperienze: quella familiare e quella sociale. La famiglia è la prima istituzione nella vita del bambino, quella che, tramite la sua funzione di protezione e sicurezza, lo prepara, lo accompagna e lo apre al sociale.

Un cortometraggio della Pixar del 2016, Piper, spiega bene questa funzione, che si traduce nell’incoraggiamento sicuro che la mamma gabbiano opera nei confronti del suo gabbianino pieno di timori nell’affrontare le onde per procurarsi cibo da solo.

Oltre alla spinta materna, il cucciolo di gabbiano incontra un granchio che, attraverso il suo esempio, lo aiuta a superare le sue paure di fronteggiare il mare, e vivere.

Nell’esistenza del bambino, sono le istituzioni sociali - la scuola, le realtà sportive…- a intervenire per sostenere e consolidare la sua socialità.

Un gesto, apparentemente banale, come quello di allacciarsi le scarpe, che tra l’altro richiama immediatamente il gioco del calcio (dove piedi e scarpe sono centrali) è un gesto che viene insegnato a casa. Questo gesto ha un valore, non solo concreto, per la crescita: infatti, oltre a promuovere il coordinamento delle dita, metaforizza l’autonomia; i piedi, infatti, rappresentano sia il radicamento, il prendere una posizione soggettiva, sia l’andare, il separarsi, il muoversi, come scrive Laura Pigozzi (2019).

Questo esempio dà l’idea di come sia la famiglia a preparare l’entrata nel mondo del bambino, ma siano i luoghi sociali a completare la sua capacità di muoversi nel mondo.

L’accesso ai luoghi sociali segue il suo sviluppo psico-fisico: in un primo tempo della vita, il bebè è ancora inerme e dipendente dall’altro familiare; quando inizia a camminare, a parlare, a pensare può essere introdotto progressivamente nel mondo.

L’esperienza di uno sport di squadra può entrare nella sua vita, quindi, quando il bambino è pronto, con il corpo e con la mente, per questa esperienza e ha, anzi, la necessità di essere sostenuto da una realtà extrafamiliare in questo passaggio di crescita per ampliare i propri legami, per interessarsi all’alterità e alla vita che si svolge nel mondo, per vivere il proprio corpo.

Una scuola calcio non ha solo una funzione #sportiva, ma prima di tutto #educativa ed #emancipativa, aiuta, infatti, l’ #autonomia psicologica perchè confronta il bambino con il concetto del limite: le regole da rispettare, i limiti del proprio corpo, la relazione con il gruppo, importante limite al suo narcisismo; lo sport di squadra favorisce la competizione sana (lui è più bravo di me… quali sono le mie caratteristiche? Quali sono le mie potenzialità? Come posso migliorarmi?), la condivisione e la collaborazione con gli altri per perseguire un unico obiettivo, la capacità dell’attesa e del rispetto dei tempi (attendere i tempi giusti per ogni cosa: non si va subito in campo!).

L’esercizio dell’autonomia inizia, prima che nel campo da #calcio, nello spogliatoio, occasione sia per allenarsi alla responsabilità verso le proprie cose, sia per viversi il gruppo.

Posta questa premessa, sembra importante sottolineare la necessità di tenere una distinzione tra i vari ambiti: familiare e sociali.

Quali sono i rischi di una sovrapposizione, di un’invasione di campo del familiare nell’ambito sportivo?

Un inciso: questa sovrapposizione è sostenuta dal discorso sociale contemporaneo. Nella società liquida (Z. Bauman), nella società dell’evaporazione del padre (J. Lacan), i limiti sfumano e impera un modello iperprotettivo, antitraumatizzante, del tutto e subito, che esalta il narcisismo, la competizione cattiva e che non sottolinea a sufficienza la bellezza dei vari passaggi d’indipendenza (non a caso si parla di adolescenza senza tempo, perché il raggiungimento dell’età adulta si sposta sempre più in avanti).

Trovandosi lacerato tra esigenze opposte e contrastanti (di crescita, da un lato, e di protezione, dall’altro), si produrranno nel bambino danni a livello di rendimento nelle prestazioni sportive. Sappiamo bene che quando la mente non è libera, perché pressata da aspettative esterne o da conflittualità, anche il corpo non sarà libero e faticherà a perdere la “goffaggine" infantile.

Oltre a questo, il bambino perderà l’occasione di fare, e interiorizzare, un’esperienza preziosa per la vita: quella della fiducia nell’altro da se’, competenza fondamentale per muoversi nel mondo con sicurezza.

Il rischio psicologico è quello di creare soggetti isolati, dipendenti, fragili.

Sottolineando il concetto di non invasione tra campo familiare e sociale, non intendo sostenere un disinteresse da parte della famiglia, ma una collaborazione e un sostegno rispetto al compito educativo svolto dalla scuola, come dalla scuola calcio.

Un regolamento affisso all’entrata di una società sportiva e riportato dalla Pigozzi (2019), lo spiega molto bene: “Incoraggia tuo figlio a stare alle regole, commenta un’azione e non una persona, non imbarazzare tuo figlio urlando contro un altro giocatore, un allenatore o un arbitro.”

Questo è utile per sottolineare l’importanza di restituire alla famiglia e alla scuola i propri ruoli distinti affinché i ragazzini crescano davvero, con un comune obiettivo educativo, al quale la scuola calcio (particolarmente attraverso la figura dell’istruttore) contribuirà in modo sostanziale ovvero abituare i ragazzini a non aver paura di sbagliare: cadano, tentino, si rialzino, cadano di nuovo e si rialzino di nuovo…

Alcuni genitori, a questo punto, mi hanno chiesto: ma allora i bambini devono scendere in campo senza pensare di voler vincere la partita?

La mia risposta: devono scendere in campo mettendocela tutta per vincere e così, possono fare anche l’esperienza di perdere! Esperienza assolutamente tollerabile e fondamentale per crescere, come i brutti voti a scuola.

Ciò favorisce il rafforzarsi di quello che in psicoanalisi si definisce l’Ideale dell’Io, una spinta interna vitale a migliorarsi sempre, che è diverso dall’Io ideale, concetto che ha a che fare con una dimensione psichica molto più superficiale e legata all’immagine narcisistica.

Lo sappiamo, è più difficile essere gli adulti (e questo vale per tutte le figure educative) che danno limiti, che passano per cattivi, per severi, che essere adulti buoni e idealizzati. E’ più difficile pensare agli esiti a lungo termine della propria funzione che a quelli a breve termine: è più facile essere amati oggi, che in prospettiva futura.

Ma questo è il prezzo per l’emancipazione non solo sul campo di calcio, ma anche nella vita.


BIBLIOGRAFIA

Pigozzi L., 2019, Adolescenza zero. Hikikomori, cutter, ADHD e la crescita negata, ed. Nottetempo


Immagine: Mandolino e chitarra, Pablo Picasso, 1924

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